Francesco
Bacone
La
Nuova Atlantide
Salpammo dal Perù (dove eravamo rimasti per un
intero anno) verso la Cina e il Giappone, attraverso il Mare del Sud, portandoci viveri per dodici mesi; e avemmo
venti favorevoli da oriente, sebbene calmi e deboli, per lo spazio di cinque mesi e più. Ma poi il vento si volse e
rimase a occidente per molti giorni,
tanto che non potemmo fare se non poca
o nessuna strada, e fummo qualche volta sul punto di ritornare. Ma poi
di nuovo si alzarono forti e grandi venti da
meridione, un grado a est; ed essi ci spinsero nostro malgrado verso il settentrione; intanto i viveri
finirono sebbene ne avessimo usato
parcamente. Così, trovandoci nel mezzo della più ampia distesa d’acque
del mondo senza viveri, ci considerammo
perduti e ci preparammo a morire. Innalzavamo
tuttavia il cuore e la voce al Dio dei cieli, il quale “mostra i Suoi miracoli nel profondo”, impetrandolo che per la Sua misericordia, come nel principio
aveva rivelato la faccia dell’abisso
producendo la terraferma, cosi rivelasse
ora la terra a noi, affinchè non perissimo.
E accadde che verso sera del giorno seguente
scorgemmo a una ventina di miglia davanti a noi, verso settentrione, certe dense nubi che ci diedero qualche speranza
di terra, sapendo come quella parte
del Mare del Sud fosse completamente sconosciuta, e potesse contenere
isole o continenti che ancora non fossero
venuti alla luce. Volgemmo perciò la nostra
rotta al punto in cui vedevamo indizi di terra per tutta quella notte e, all’albeggiare del giorno
seguente, potemmo distinguere
chiaramente che si trattava di una terra, che alla nostra vista appariva piatta e piena di boschi, la qual cosa la faceva sembrare tanto più scura. E dopo
un’ora e mezzo di navigazione,
entrammo in una buona insenatura, che era il porto di una bella città: per la
verità non grande, ma ben costruita, e
che offriva una piacevole vista dal mare. Noi, che non vedevamo l’ora di
essere sulla terraferma, accostammo alla riva
e facemmo per sbarcare. Ma immediatamente vedemmo parecchie persone che,
con bastoni in mano, sembravano volerci
vietare di scendere a terra, senza però grida od ostilità, ma solo come per avvertirci di stare al largo con i cenni che facevano. Essendo da questo non
poco disanimati, ci mettemmo a
deliberare sul da farsi.
Nel frattempo si
avvicinò a noi una piccola imbarcazione, con circa otto persone a bordo, una
delle quali aveva in mano una verga di canna
gialla con i due puntali azzurri; essa sali a bordo della nostra nave senza la minima apparenza di sospetto. E quando vide uno dei nostri farsi un poco
avanti rispetto agli altri, trasse un
piccolo rotolo di pergamena (alquanto
più gialla della nostra pergamena, e lucente come i piani delle tavole scrittorie, ma per il resto
morbida e flessibile), e la consegnò al nostro capo. Sul rotolo erano scritte in antico ebraico, in antico greco, nel buon
latino della scuola e in spagnuolo
queste parole: « Non sbarcate, nessuno di voi, e fate in modo di allontanarvi da questa
costa entro sedici giorni, a meno che
non vi sia concesso più tempo. Frattanto, se avete bisogno di acqua, o di vitto, o di aiuto per gli infermi, o se la vostra nave esige riparazioni,
trascrivete le vostre necessità, e riceverete quello che compete alla
misericordia. » II rotolo era suggellato da uno stemma con ali di cherubino, non aperte, ma ripiegate verso il
basso; e accanto a esse una croce.
Dopo che questo fu consegnato, il messo
se ne andò, lasciando da noi soltanto un servitore perché ricevesse la nostra
risposta.
Nel consultarci fummo molto perplessi. Il divieto
di sbarco e l’impaziente avvertimento di allontanarci ci turbavano
assai; d’altra parte, scoprire che quella gente conosceva le lingue ed era così piena di umanità ci
confortava non poco. E sopra tutto il
segno della Croce su quel documento era per noi motivo di grande gioia e starei per dire un certo presagio di bene. La nostra risposta fu data in
lingua spagnuola: “che quanto alla
nostra nave, essa era a posto, perché
ci eravamo imbattuti in calme e venti contrari più che in tempeste. Quanto agli infermi, essi erano
molti, e in condizione molto grave; tanto che se non si fosse permesso
loro di sbarcare sarebbero stati in pericolo
di morte”. Specificammo nei
particolari le altre nostre necessità, aggiungendo “che avevamo una piccola scorta di mercanzia la quale,
se di essa fosse loro piaciuto approfittare, avrebbe potuto supplire le nostre necessità senza che queste dovessero gravare
su di loro”. Offrimmo al servo una
ricompensa in pistole e una pezza di velluto cremisi da donare al messo;
ma il servo non le prese e non volle neppure
vederle; e cosi ci lasciò e fece ritorno in un’altra piccola imbarcazione che
era stata mandata a prenderlo.
Circa tre ore dopo che avevamo consegnato la
nostra risposta, giunse alla nostra volta una persona importante (a quanto sembrò). Indossava una veste con ampie
maniche, d’una specie di cammello
chiaro, di un bellissimo colore azzurro,
molto più lucido del nostro; sotto, il suo indumento era verde, e così
anche il suo cappello che era a forma di turbante,
fatto elegantemente, ma non enorme come i turbanti turchi; e i riccioli della chioma gli scendevano da sotto l’orlo d’esso. Egli era un uomo d’onorabile
aspetto. Giunse in una barca, in
alcune parti dorata, con solo altre quattro persone a bordo, ed era seguito da un’altra imbarcazione nella quale era una ventina di persone. Quand’egli
fu giunto a un tiro d’arco dalla nostra nave, ci fecero segno di mandargli incontro qualcuno in acqua, il che facemmo
immediatamente per mezzo della
scialuppa, mandandogli il nostro secondo,
e con lui quattro dei nostri.
Quando fummo giunti a sei iarde dalla loro barca,
ci gridarono di fermarci e di non avvicinarci più oltre, il che facemmo. E allora l’uomo che dianzi ho descritto
si alzò e con voce forte domandò in
spagnuolo: « Siete cristiani? » Rispondemmo
di si, tanto meno intimoriti per la croce che avevamo visto nel sigillo. A tale risposta la detta persona alzò la mano destra al cielo e la portò
delicatamente alla bocca (questo è il
gesto che usano quando ringraziano Dio), poi disse: « Se giurerete voi tutti,
per i meriti del Salvatore, che non
siete pirati, e che da almeno quaranta giorni non avete sparso sangue legittimamente o
illegittimamente, potrete avere il
permesso di venire a terra. » Rispondemmo che eravamo tutti pronti a fare quel giuramento. Allora uno di quelli che erano con lui, evidentemente un
notaio, registrò l’atto. Ciò fatto, un altro accompagnatore di quel gran personaggio, che era con lui nella stessa barca, dopo
che il suo signore gli ebbe parlato
un poco disse ad alta voce: « II mio signore vuole che sappiate che non
è per orgoglio o grandezza ch’egli non viene
a bordo della vostra nave; ma poiché nella
vostra risposta dichiarate di avere molti infermi fra voi, egli è stato ammonito dal Conservatore della
Salute della città di tenersi a
distanza. » Ci inchinammo a lui e rispondemmo che eravamo i suoi umili servi, e che consideravamo atto di grande onore e di singolare umanità verso
di noi ciò che era già stato fatto, ma
che avevamo ragione di sperare che la natura della malattia dei nostri uomini
non fosse infettiva. Cosi egli se ne
tornò indietro; e un momento dopo venne a bordo della nostra nave il notaio, reggendo in mano un frutto di quel paese, simile a un’arancia, ma di
un colore fra l’arancio scuro e il rosso, e che emanava un eccellente
odore. Se ne serviva (così sembrò) come di un protettivo contro l’infezione.
Egli ci suggerì la formula del giuramento: “Nel nome di Gesù e dei Suoi meriti”; e poi ci disse che il giorno seguente verso le sei del mattino saremmo stati
mandati e accompagnati alla Casa dei Forestieri (cosi egli la chiamò), dove saremmo stati provveduti di cose sia per i
sani sia per gli infermi. Indi ci lasciò; e quando gli offrimmo alcune
pistole, egli sorridendo disse che non doveva
essere pagato due volte per lo stesso
lavoro: volendo dire (secondo me) che riceveva
dallo stato un compenso sufficiente per il suo servizio. Essi infatti (come più tardi appresi)
chiamano un funzionario che accetti ricompense un doppiamente pagato.
Il mattino dopo di
buon’ora venne da noi lo stesso funzionario
che era venuto la prima volta munito di verga, e ci disse che “era venuto a condurci alla Casa dei Forestieri; e
ch’egli aveva anticipato l’ora perché potessimo disporre dell’intera giornata per le nostre faccende”. « Se
infatti vorrete seguire il mio
consiglio, — egli disse, — prima verranno con me alcuni di voi a vedere
il posto e come possa essere adattato a voi;
poi potrete mandare a prendere i vostri infermi e gli altri che volete portare a terra. » Lo ringraziammo e rispondemmo che Dio avrebbe ripagato la cura
ch’egli si prendeva di forestieri
sperduti. Cosi in sei andammo a terra con lui, e quando fummo sbarcati ci
precedette, e si volse a noi dicendo
ch’egli era soltanto il nostro servo e la nostra guida. Ci condusse attraverso tre belle strade; e lungo tutto il cammino che percorremmo erano radunate alcune
persone in fila da entrambi i lati;
ma in maniera cosi educata che non
pareva fossero venute ad ammirarci, ma a darci il benvenuto; e parecchi di loro, al nostro passaggio,
allargavano un poco le braccia, perché
questo è il loro gesto per dare a qualcuno
il benvenuto.
La Casa dei Forestieri è un bell’edificio
spazioso, fatto di mattoni d’un colore un tantino più azzurro dei nostri
e con belle finestre, alcune di vetro, altre
di una specie di percalle cerato.
Egli ci condusse dapprima in un bel salotto al piano superiore e poi ci domandò quanti fossimo, e quanti
fossero i malati. Rispondemmo che
eravamo in tutto (sani e malati) cinquantun persone, e di queste diciassette
erano gli infermi. Egli ci invitò a
pazientare un poco e ad aspettare il suo ritorno, che avvenne circa un’ora dopo; poi ci portò a vedere le stanze che ci erano assegnate, in numero di
diciannove. E pareva che avessero
stabilito che quattro di quelle stanze, che erano migliori delle altre,
accogliessero quattro fra gli uomini più importanti della nostra
compagnia e li alloggiassero singolarmente,
mentre le altre quindici stanze dovevano alloggiare noi a due a due. Le stanze
erano belle e ridenti e ammobiliate
con decoro. Poi ci condusse in un lungo corridoio, simile a un dormitorio, dove ci mostrò, tutte su un lato (perché sull’altro lato v’erano soltanto la
parete e le finestre) diciassette
celle molto linde, con tramezzi di legno di cedro. Questo corridoio di celle, in tutto quaranta (molte di più di quante ci occorressero) era stato creato
come infermeria per ammalati. E ci
disse ancora che qualora qualcuno dei
nostri infermi si fosse ristabilito, avrebbe potuto essere trasferito dalla cella a una camera; a
questo scopo erano pronte dieci
camere di riserva, oltre a quelle di cui abbiamo parlato prima. Dopo di
che ci ricondusse nel salotto, e, alzando un
poco la verga (come usano quando danno una disposizione o un comando), ci disse: « Bisogna che sappiate che
il costume del paese esige che dopo oggi e domani (che noi vi concediamo per trasferire i vostri uomini dalla nave), dovrete rimanere dentro per tre giorni. Ma
questo non vi turbi, e non
consideratevi prigionieri, ma piuttosto lasciati in quiete e a vostro agio. Non vi mancherà nulla, e sei
dei nostri uomini sono espressamente al vostro servizio per qualsiasi bisogna abbiate fuori di qui. » Lo ringraziammo con tutta gratitudine e rispetto e dicemmo: «
Iddio è certamente manifesto in questo paese. » Gli offrimmo anche venti
pistole; ma egli sorrise e disse appena: « Che? Doppiamente pagato! » E ci lasciò.
Poco dopo ci fu servito il pranzo, ch’era
costituito di ottime vivande, sia per il pane sia per la carne: migliore
di qualsiasi dieta collegiale che io conosca
in Europa. Ci diedero anche bevande di
tre sorte, tutte genuine e gustose: vino
d’uva; una bibita ottenuta dai cereali, come la birra da noi, ma più chiara; e una specie di sidro fatto
con un frutto di quel paese, una
bevanda straordinariamente piacevole e rinfrescante.
Inoltre ci fu portata gran copia di quelle certe arance rosse per gli infermi; le quali, ci dissero, erano un rimedio sicuro contro infermità contratte sul
mare. Ci fu data anche una scatola
di piccole pasticche grigie o bianchicce, che ci pregarono di far prendere ai nostri infermi in ragione di una ogni sera prima di dormire; ed esse, ci
dissero, avrebbero affrettato la loro
guarigione.
Il giorno seguente,
dopo che il lavoro del trasferimento e del
trasporto degli uomini e delle merci dalla nave fu in qualche modo concluso e risolto, pensai bene di
convocare i nostri compagni; e quando
furono riuniti dissi loro: « Miei cari amici, cerchiamo di renderci ben
conto di come stiano le cose. Siamo stati
gettati sulla terraferma, come lo fu Giona dal ventre della balena, quando
eravamo come sprofondati nell’abisso:
e ora che siamo sbarcati stiamo ancora tra la vita e la morte; ci troviamo infatti oltre l’Antico Mondo e il Nuovo; e Dio solo sa se mai vedremo ancora
l’Europa. Una specie di miracolo ci ha
portato in questo luogo, e dovrà essere
qualcosa di poco inferiore a riportarci via di qui. Perciò, considerando la trascorsa salvezza e il
pericolo presente e a venire,
rivolgiamoci a Dio, e ognuno corregga sé stesso. Per di più siamo capitati tra un popolo cristiano, pieno di pietà e di carità: non rechiamo in noi la
confusione di volto mostrando loro i
nostri vizi o la nostra indegnità. Ma c’è
dell’altro: essi infatti ci hanno d’autorità (sebbene in forma cortese) confinato entro queste mura per tre
giorni; chi sa che non sia per avere
un’idea dei nostri usi e delle nostre abitudini?
e per cacciarci immediatamente giudicandoli cattivi, o per darci altro tempo giudicandoli buoni? Perché
questi uomini che ci hanno dato a servizio possono anche sorvegliarci. Perciò,
per amor di Dio, e se amiamo il bene della nostra anima e del nostro corpo, comportiamoci in modo da essere in pace con Dio e di poter trovare
grazia agli occhi di questa gente. »
La compagnia mi ringraziò unanime per
il mio buon avvertimento e mi promise di vivere sobriamente e decorosamente e senza offrire il più piccolo motivo di offesa. Trascorremmo cosi i nostri tre
giorni lietamente e senza
preoccupazioni, in attesa di ciò che si sarebbe fatto di noi quando fossero passati. Durante questo tempo fummo
allietati a ogni ora dal ristabilimento dei nostri infermi, ai quali pareva di essere stati immersi in
chi sa quale divina piscina probatica,
tanto dolcemente e prontamente si ristabilivano.
La mattina successiva ai tre giorni, venne da noi
un uomo che non avevamo mai visto prima, vestito d’azzurro come il primo, solo che il suo turbante era bianco, con
una piccola croce in cima. Aveva anche una stola di lino fine. Giungendo
s’inchinò un poco verso di noi e allargò le
braccia. Da parte nostra lo salutammo
in maniera molto umile e sottomessa, come
se ci attendessimo di ricevere da lui sentenza di vita o di morte. Egli
espresse il desiderio di parlare con alcuni di noi. Allora restammo soltanto in sei e gli altri abbandonarono la
stanza. Egli disse: « Per incarico sono Rettore di questa Casa dei Forestieri, e per vocazione sono
sacerdote cristiano; e sono perciò venuto a offrirvi il mio servigio e come forestieri e, principalmente, come cristiani.
Posso dirvi alcune cose che credo non udrete malvolentieri. Lo stato vi ha dato licenza di rimanere nel paese per lo spazio
di sei settimane, e non preoccupatevi
se le vostre esigenze richiedono
altro tempo, perché la legge a questo proposito non è scrupolosa; e non
dubito che io stesso sarò in grado di ottenervi
tutto il tempo in più che possa tornarvi utile. Dovete anche sapere che in
questo momento la Casa dei Forestieri è ricca e molto ben fornita, perché ha
accumulato entrate in questi
trentasette anni; da tanto tempo infatti nessuno straniero è più venuto da queste parti; perciò non datevi pensiero, lo stato vi manterrà per tutto il
tempo che rimarrete. Né per questo
dovrete rimanere un solo giorno di meno.
Quanto alla mercanzia che avete portato, sarete trattati bene e ne avrete una ricompensa, o con altra
mercé o con oro e argento: per noi infatti sono la stessa cosa. E se avete qualche altra richiesta da fare, non
celatela; perché scoprirete che non vi
deluderemo con la risposta che riceverete.
Devo dirvi soltanto questo: nessuno di voi deve allontanarsi più di un karan (che è per loro
un miglio e mezzo) dalle mura della
città, senza uno speciale permesso. »
Dopo esserci
guardati l’un l’altro per un attimo in segno d’ammirazione
per questo trattamento generoso e paterno, rispondemmo che non sapevamo che dire, perché ci mancavano le parole per esprimere la nostra
gratitudine, e che le sue nobili e
spontanee offerte non ci lasciavano niente da chiedere. Che ci sembrava di avere davanti a noi l’immagine della nostra salvezza in Cielo, perché noi, che
poco prima eravamo dentro le fauci
della morte, eravamo ora stati portati in un luogo dove trovavamo
soltanto consolazioni. Che quanto all’ordine datoci, non avremmo mancato di
obbedirvi, sebbene fosse impossibile che i
nostri cuori non ambissero di calcare
più oltre quella terra felice e santa. Aggiungemmo che la nostra lingua si sarebbe attaccata al
palato prima che avessimo a
dimenticare la sua reverenda persona o tutta la nazione nelle nostre preghiere. Lo pregammo anche molto umilmente di
accettarci come suoi leali servitori, con lo stesso legittimo principio
per il quale poteva esserlo qualsiasi altro uomo
in terra; e mettevamo ai suoi piedi e gli donavamo le nostre persone e tutto ciò che avevamo. Egli disse
di essere un sacerdote e di cercare
una ricompensa da sacerdote, cioè il
nostro amore fraterno e il bene della nostra anima e del nostro corpo. Così se ne andò da noi, non senza lacrime
di tenerezza agli occhi, e lasciò anche noi confusi di gioia e di bontà, convinti di essere venuti in una terra di angeli, che ci apparivano quotidianamente e ci
prestavano conforti ai quali neppure pensavamo, e che tanto meno ci
aspettavamo.
Il giorno seguente,
intorno alle dieci, il Governatore tornò da
noi e, dopo i saluti, ci disse amichevolmente che era venuto a farci visita; e si fece dare una sedia e si
sedette; e una decina di noi (gli
altri o erano subalterni o erano usciti)
sedette con lui; e quando fummo seduti egli così cominciò: « Noi dell’isola di Bensalem (cosi infatti si chiama nella loro lingua) abbiamo questo privilegio: che a
causa della nostra ubicazione isolata
e delle leggi sulla segretezza che abbiamo per i nostri viaggiatori, e della
rara ammissione di forestieri,
conosciamo assai bene la maggior parte del mondo abitabile, mentre noi stessi siamo sconosciuti. Perciò, siccome si conviene che chi meno sa faccia
domande, è più giusto che per passare
il tempo voi facciate domande a me e
non io a voi. »
Rispondemmo che lo
ringraziavamo umilmente per il fatto che egli ci permettesse di fare questo, e
che credavamo, per l’impressione che già ci
eravamo fatta, che non vi fosse sulla
terra nessuna cosa mortale più degna di essere conosciuta dello stato di quella terra felice. Ma che
prima di ogni altra cosa (dicemmo),
dal momento che ci eravamo incontrati
pur dagli estremi del mondo e speravamo veramente di incontrarci un giorno nel regno del Cielo (perché da entrambe
le parti eravamo cristiani), desideravamo sapere (considerando che quel territorio era cosi lontano e separato da vasti e ignoti mari dal paese nel quale
il nostro Salvatore camminò sulla
terra) chi fosse stato l’apostolo di quella
nazione e come essa fosse stata convertita alla fede. Fu evidente dal suo volto ch’egli molto si
compiacque di questa domanda; disse: «
Legate a voi il mio cuore facendomi
questa domanda per prima: perché questo dimostra che in primo luogo
cercate il regno dei Cieli; e io con gioia soddisfarò
brevemente alla vostra domanda.
« Circa venti anni
dopo l’Ascensione del nostro Salvatore accadde
che la gente di Renfusa (una città sulla costa orientale della nostra isola) scorgesse (la notte era
nuvolosa e tranquilla) a forse qualche
miglio sul mare un gran pilastro di
luce, non sottile, ma a forma di colonna o di cilindro, sorgere dal mare molto in alto verso il cielo; e
sulla sua cima si vedeva una grande croce di luce, più luminosa e più splendente del corpo della colonna. A quello
spettacolo cosi straordinario, gli
abitanti della città si raccolsero prontamente sulla spiaggia ad ammirare, e quindi salirono su alcune piccole
imbarcazioni per avvicinarsi alla meravigliosa visione. Ma quando le barche furono giunte a circa sessanta
iarde dal pilastro, essi si trovarono
del tutto incapaci di andare più oltre,
tanto che potevano spostarsi per girare intorno, ma non potevano avvicinarsi di più; perciò le barche
si fermarono tutte come in un teatro,
guardando quella luce come un segno
divino. Si diede il caso che vi fosse in una delle barche uno dei nostri saggi, della Società della Casa
di Salomone, — casa questa o collegio,
miei buoni fratelli, che è davvero
l’occhio di questo regno, — il quale, dopo aver per un po’ attentamente e devotamente osservato e contemplato il
pilastro e la croce, si gettò bocconi e poi si alzò sulle ginocchia e, levando le mani al cielo, pregò in
questo modo:
« “Signore Iddio del
Cielo e della terra; Tu hai concesso per Tua
grazia a quelli del nostro ordine di conoscere le Tue opere della creazione e i loro segreti, e di
distinguere (per quanto si conviene
alla specie umana) fra i miracoli divini, le opere della natura, le opere dell’arte e le imposture e le illusioni d’ogni sorta. Dichiaro qui e testimonio
davanti a questo popolo che ciò che
ora vediamo dinanzi ai nostri occhi è
il Tuo dito e miracolo vero. E poiché apprendiamo dai nostri libri che Tu non operi mai miracoli se
non per un fine divino e superiore
(perché le leggi della natura sono le
Tue stesse leggi, e Tu non le oltrepassi se non per un grande motivo), noi Ti imploriamo molto umilmente
di perfezionare questo grande segno e
di darcene per misericordia il
significato e il fine; il che già in parte tacitamente prometti, inviandolo a noi.”
« Appena egli ebbe
detto la preghiera, si accorse che la sua
barca poteva muoversi ed era libera, mentre tutte le altre rimanevano
immobili; e considerando questa la conferma del permesso di avvicinarsi, diede
ordine di remare dolcemente e in silenzio
verso il pilastro. Ma prima ch’egli vi si avvicinasse, il pilastro e la croce
di luce s’infransero e si dispersero
quasi in un firmamento di molte stelle, le quali ben presto svanirono anch’esse e non rimase
nient’altro da vedere se non una
piccola arca o baule di cedro, asciutta e per niente bagnata dall’acqua, sebbene galleggiasse. E all’estremità
ch’era rivolta verso di lui spuntò un verde rametto di palma; e quando il
saggio l’ebbe presa sulla sua barca con grande
devozione, si apri da sé e in essa furono trovati un libro e una lettera, entrambi scritti su fine
pergamena e avvolti in sindoni di
lino. Il libro conteneva tutti i libri canonici
dell’Antico e del Nuovo Testamento, come voi li possedete (perché noi sappiamo
bene che cosa accolgano le vostre Chiese), e la stessa Apocalisse; e alcuni
altri libri del Nuovo
Testamento, che a quel tempo non erano ancora stati scritti, erano tuttavia nel libro. La lettera
poi recava queste parole:
« “Io Bartolomeo, servitore dell’Altissimo e Apostolo di Gesù Cristo,
fui ammonito da un angelo che mi apparve in visione
di gloria di affidare quest’arca ai flutti del mare. Perciò io attesto e dichiaro al popolo verso la cui
terra Dio disporrà che quest’arca
giunga che in quello stesso giorno è giunta
loro la salvezza e la pace, e la benevolenza da parte del Padre e del Signore Gesù.”
« E per entrambi
questi scritti, sia per il libro sia per la
lettera, si operò un grande miracolo simile a quello degli apostoli con il dono immediato delle lingue.
Infatti, essendovi a quel tempo in questa terra Ebrei, Persiani e Indiani, oltre agli aborigeni, ognuno di essi lesse il libro
e la lettera come se fossero stati
scritti nelle rispettive lingue. E cosi questa terra fu salvata dall’infedeltà (come i resti dell’Antico
Mondo dalle acque) da un’arca, per mezzo dell’evangelo apostolico e miracoloso di San Bartolomeo. » A questo punto egli tacque, e giunse un messaggiero che lo fece
allontanare da noi. E questo è tutto
quanto fu detto in quell’incontro.
Il giorno seguente,
lo stesso Governatore tornò da noi subito dopo il pranzo e si scusò dicendo che
il giorno prima era stato allontanato da noi piuttosto bruscamente, ma che voleva ora riparare passando il tempo con noi se
stimavamo gradevole la sua compagnia e il suo discorrere. Rispondemmo che ci erano tanto graditi e accetti, che
dimenticavamo sia i pericoli passati
sia i timori per il futuro mentre lo sentivamo parlare; e che ci sembrava che
un’ora passata con lui valesse anni
della nostra vita precedente. Egli s’inchinò leggermente verso di noi, e dopo che ci fummo riseduti disse: « Bene, a voi le domande. »
Dopo breve silenzio,
uno di noi disse che c’era una cosa che non eravamo meno desiderosi di sapere
di quanto non fossimo restii a domandare, nel timore di presumere troppo. Ma che, incoraggiati dalla sua rara umanità verso
di noi (tanto che non potevamo neppure
considerarci forestieri, essendoci
votati e dichiarati al suo servizio), avremmo preso l’ardire di proporgliela, pregandolo umilmente che
se avesse giudicato la domanda indegna di risposta, la perdonasse pur rigettandola. Dicemmo di aver ben notato il
discorso che aveva fatto prima, secondo cui quell’isola felice, nella
quale ora eravamo, era nota a pochi eppure
conosceva la maggior parte delle nazioni del mondo, e questo avevamo
costatato essere vero considerando che
possedevano le lingue d’Europa e che
conoscevano molte cose sulla nostra vita e sulle nostre attività; mentre noi in Europa (nonostante tutte le
scoperte e le navigazioni degli
ultimi tempi in paesi lontani) non avevamo
mai sentito un indizio o un cenno anche minimi di quell’isola. Questo ci pareva oltremodo strano; perché tutte le nazioni si conoscono tra loro o
attraverso viaggi in paesi stranieri,
o per mezzo di forestieri che giungono presso di loro; e che sebbene il viaggiatore in paese straniero generalmente
impari dall’aver visto più di chi stando in casa possa apprendere dal racconto del viaggiatore, tuttavia
entrambe le cose bastano a stabilire
una mutua conoscenza in certo modo in
entrambe le parti. Ma quanto a quest’isola, non avevamo mai sentito dire che una sua nave fosse stata
vista giungere a una costa d’Europa,
e neppure delle Indie Orientali od Occidentali;
e neanche di qualunque nave di qualsiasi altra parte del mondo che avesse fatto ritorno da essa. Eppure il fatto straordinario non era questo, perché la sua
ubicazione (come aveva detto sua
eccellenza) nel segreto conclave di un mare
così vasto poteva esserne la ragione. Ma il fatto che essi fossero a conoscenza delle lingue, dei libri,
dei negozi di coloro che si trovavano
a tanta distanza era cosa che non sapevamo
come spiegarci; poiché ci pareva una condizione e una virtù delle potenze e
degli esseri divini quella di essere
celati e invisibili agli altri, e di vedere tuttavia gli altri chiaramente illuminati.
A queste parole il Governatore sorrise
benevolmente e disse che avevamo fatto bene a domandare scusa per la domanda che gli avevamo rivolto, perché essa lasciava
quasi intendere che noi considerassimo quel paese un paese di maghi che mandavano spiriti dell’aria da ogni
parte perché portassero loro notizie e
informazioni di altri paesi. Noi tutti rispondemmo
con ogni possibile umiltà, e tuttavia con espressione consapevole, che sapevamo ch’egli lo diceva soltanto per celia; che eravamo piuttosto indotti a pensare
che vi fosse qualcosa di soprannaturale nell’isola, ma più angelico che
non magico. Ma a voler dire onestamente a sua
eccellenza che cosa fosse che ci
rendeva tanto timidi e dubbiosi nel porre la domanda, non era stata un’idea del genere, ma il fatto che rammentavamo ch’egli ci aveva informato nel suo
colloquio precedente che il paese aveva leggi di segretezza riguardo ai forestieri. A questo egli rispose: « Rammentate
giustamente; per questo motivo devo
dirvi che sono costretto a celarvi alcuni
particolari che non mi è consentito rivelare, ma rimarrà abbastanza da darvi soddisfazione.
« Dovete sapere
(cosa che difficilmente vi parrà credibile) che circa tremila anni fa, o forse
più, la navigazione del mondo (specialmente
le lunghe traversate) era più intensa di quella di oggi. Non giudicate
dal vostro caso particolare; non credete ch’io
non sappia quanto si sia accresciuta da voi negli ultimi centoventi anni; lo so bene, eppure vi dico che
allora era più intensa di oggi; fosse
che l’esempio dell’arca che salvò gli
uomini superstiti dal diluvio universale suggerisse la fiducia ad avventurarsi sulle acque, o fosse
qualsiasi altra cosa; ma questa è la
verità. I Fenici, e specialmente i Tirii, avevano grandi flotte; cosi fecero
una loro colonia dei Cartaginesi che
pur si trovavano più a occidente. A oriente la navigazione dell’Egitto e della
Palestina era parimente grande. Anche
la Cina e la grande Atlantide (che voi chiamate America), che ora hanno soltanto giunche e canoe, abbondavano allora di grandi navi. Quest’isola (come
appare da registri degni di fede di
quei tempi) aveva allora millecinquecento
robuste navi di grande capacità. Di tutto questo da voi c’è scarsa
memoria o nessuna, mentre noi ne abbiamo un’ampia
conoscenza.
« In quel tempo questa terra era nota e frequentata
dalle navi e dai vascelli di tutte le nazioni dianzi nominate. E (come suole avvenire) molte volte venivano con essi
persone di altri paesi, che non erano
marinai: Persiani, Caldei, Arabi; cosi che quasi tutte le nazioni potenti e
famose affluivano qui; e di esse
abbiamo ancora oggi qualche famiglia e piccoli gruppi presso di noi. Quanto alle nostre navi, esse fecero
numerosi viaggi, sia verso lo stretto
che voi chiamate Colonne d’Ercole, sia
verso altre parti dei mari Atlantico e Mediterraneo, sia verso Paguin (che è poi la stessa Cambaline) e
Quinzy, sui mari orientali, fino al
confine della Tartaria orientale.
« Nello stesso
tempo, e per un altro secolo o più, fiorirono
gli abitanti della grande Atlantide. Infatti, sebbene la narrazione e descrizione che un grande uomo ha
fatto presso di voi dei discendenti di
Nettuno che colà si stabilirono, e del
tempio, del palazzo, della città e della collina grandiosi, e dei vari corsi di fiumi ben navigabili (che come
altrettante catene circondavano quello stesso luogo e il tempio), e dei numerosi
gradini della salita, per i quali si ascendeva al medesimo, come se fosse stata una Scala Coeli, siano tutte poetiche e
favolose, tuttavia è vero questo: che il detto paese di Atlantide, così come quello del Perù che allora
era chiamato Coya, cosi come quello
del Messico che allora era chiamato
Tyrambel, erano regni potenti e fieri per armi, navigazione e ricchezze;
tanto potenti che in una sola volta (o almeno
nello spazio di dieci anni), fecero entrambi due grandi spedizioni:
quelli di Tyrambel verso il Mediterraneo attraverso
l’Atlantico, e quelli di Coya attraverso il Mare del Sud verso questo nostra isola; della prima, che fu
quella in Europa, quello stesso
vostro autore pare avesse qualche notizia
dal sacerdote egiziano ch’egli cita. E tale cosa avvenne senz’altro. Che
siano poi stati gli antichi Ateniesi ad aver avuto la gloria di respingere
quelle forze e di resistervi, io non so; ma è
certo che non tornò mai indietro nave o uomo da quel viaggio. Né il
viaggio di quelli di Coya nella nostra terra avrebbe
avuto miglior fortuna se essi non si fossero imbattuti in nemici di più
grande clemenza. Poiché il re di quest’isola, il
cui nome era Altabino, uomo saggio e grande guerriero, ben conoscendo la propria forza e quella dei suoi
nemici, condusse le cose in modo da
isolare le loro forze di terra dalle
navi, e immobilizzò la flotta e l’esercito con forze maggiori delle loro per terra e per mare, e li
costrinse ad arrendersi senza colpo
ferire; e quando essi furono alla sua mercé, unicamente fidandosi del
giuramento ch’essi non avrebbero più portato
le armi contro di lui, li lasciò andare tutti sani e salvi.
« Ma non molto tempo
dopo la vendetta divina raggiunse quelle
orgogliose imprese. Infatti, entro uno spazio inferiore ai cento anni, la Grande Atlantide fu
completamente perduta e distrutta; non
da un gran terremoto, come dice il vostro autore (perché quell’intero territorio va ben poco soggetto ai terremoti), ma da un parziale diluvio o
inondazione, essendovi in quei paesi anche oggi fiumi ben più grandi e
montagne ben più alte per riversare acqua di quanto non ne abbia qualsiasi
parte del Vecchio Mondo. Ma è vero che questa inondazione
non fu alta, non oltrepassando i quaranta piedi dal suolo nella maggior parte dei punti, così che, sebbene essa
distruggesse generalmente uomini e animali, tuttavia si salvarono alcuni pochi
abitatori selvaggi della foresta. Scamparono anche gli uccelli, volando sugli
alti alberi e nei boschi elevati. Quanto poi
agli uomini, sebbene essi avessero in molti
punti edifici più alti della profondità dell’acqua, tuttavia l’inondazione, per quanto fosse scarsa, ebbe
lunga durata, onde quelli della
pianura che non furono annegati perirono
per mancanza di cibo e di altre cose necessarie.
« Non stupitevi
perciò dell’esigua popolazione dell’America
o della rozzezza e dell’ignoranza di quel popolo; dovete infatti
considerare i vostri abitatori d’America un popolo giovane, più giovane mille anni almeno del resto del mondo, perché
tanto fu il tempo fra il diluvio universale e la loro inondazione parziale. Infatti, i poveri superstiti della specie umana che rimanevano sulle montagne popolarono di
nuovo lentamente il paese, a poco a
poco, ed essendo gente semplice e
selvaggia (non come Noè e i suoi figli, che erano la prima famiglia della terra), non furono in grado
di trasmettere lettere, arti e civiltà ai loro posteri; ed essendosi parimente
abituati nelle loro dimore montane (per via del freddo eccezionale di quelle regioni) a vestirsi di pelli di tigri, di orsi e di grandi capre vellose che hanno da quelle
parti, quando poi vennero giù nella vallata e vi trovarono le
intollerabili calure, non conoscendo modi più leggieri di vestirsi furono costretti a cominciare l’uso di andare nudi,
che continua ancora oggi. Soltanto, molto si vantano e si compiacciono delle piume degli uccelli, e anche questo
l’hanno derivato da quei loro antenati delle montagne, che vi erano
stati indotti dall’infinito volo di uccelli che erano saliti ai terreni elevati fin tanto che sotto rimanevano le acque.
Vedete perciò come, per questo
importante incidente del tempo, perdemmo il nostro traffico con gli Americani,
con i quali più che con tutti gli altri avevamo moltissimo commercio per il
fatto che si trovavano più vicini a
noi.
« Quanto alle altre
parti del mondo, è ben evidente che nelle
età seguenti (fosse a causa delle guerre o per una naturale evoluzione del tempo) la navigazione declinò
dappertutto grandemente; e specie i
lunghi viaggi (principalmente per l’uso di galee e di vascelli che
potevano a malapena solcare l’oceano) furono
completamente abbandonati e trascurati. Perciò vedete come da gran tempo sia
cessata quella parte degli scambi che
ci poteva venire da altre nazioni che navigassero verso di noi, eccetto per qualche raro caso come questo vostro. Ma ora, della cessazione dell’altra
parte degli scambi che poteva
avvenire attraverso i nostri viaggi verso altre nazioni, debbo fornirvi qualche altra causa. Infatti, non posso negare,
a voler parlare francamente, che la nostra flotta, per numero, forza, marinai, piloti e tutte le cose che
riguardano la navigazione sia grande come prima; e perciò vi darò ora una spiegazione a parte del motivo per il quale ce
ne restiamo in patria; e con vostra
soddisfazione si avvicinerà di più alla vostra domanda principale.
« Regnava in
quest’isola circa 1900 anni fa un re, la cui memoria più di quella d’ogni altro
veneriamo, non superstiziosamente, ma come
uno strumento divino, sebbene si sia trattato d’un mortale; il suo nome
era Solamona, e lo consideriamo il
legislatore del nostro paese. Questo re aveva un grande cuore inscrutabile per bontà, ed era completamente dedito a far felice il suo regno e la sua gente.
Avendo egli perciò osservato quanto
sufficiente e ricca fosse questa terra per
mantenersi da sé assolutamente senza alcun aiuto straniero, avendo essa 5600 miglia di circonferenza e
per lo più un suolo di rara fertilità; e considerando anche che la navigazione di questo paese avrebbe potuto essere resa
assai attiva con la pesca e con i trasporti di golfo in golfo, e altresì veleggiando verso certe isolette che non sono lontane da
noi e sono soggette alla corona e
alle leggi di questo Stato; e richiamando
alla propria mente la condizione felice e fiorente in cui si trovava allora questa terra, tanto che in
mille modi avrebbe potuto essere
trasformata in peggio ma difficilmente in
meglio in un qualsiasi modo, niente mancava alle sue nobili ed eroiche
intenzioni, se non (per quanto avanti potesse spingersi la previsione umana) dare continuità a quel che era in quel momento
così felicemente in essere. Perciò, fra le altre sue leggi fondamentali di
questo regno, decretò gli interdetti e le proibizioni che abbiamo
riguardo all’ingresso degli stranieri, che in quel tempo (sebbene successivo
alla calamità dell’America) era frequente,
temendo innovazioni e mescolanze di costumi. È vero che una simile legge contro
l’ammissione di forestieri senza
permesso è un’antica legge del regno di Cina, che continua ancora
nell’uso. Colà è però povera cosa; e ne ha
fatto una nazione curiosa, ignorante, timorosa, sciocca. Ma il nostro legislatore fece la legge d’uno spirito diverso. Infatti, per prima cosa egli ha tutelato
tutti gli elementi di umanità nel disporre e nel provvedere al soccorso dei forestieri in difficoltà; e questo l’avete
sperimentato. »
A queste parole (così
come si conveniva) ci alzammo tutti e
c’inchinammo. Egli proseguì:
« Quel re, desiderando però unire insieme umanità
e senso politico, e pensando che fosse contrario all’umanità trattenere
qui i forestieri contro la loro volontà, e che fosse contro il senso politico che ritornassero e rivelassero la loro conoscenza di questo stato, prese questa via: egli
ordinò che i forestieri che avessero avuto il permesso di sbarcare
potessero ripartire (ogni volta) tanti quanti lo volessero; ma quelli che fossero voluti rimanere avrebbero ottenuto
dallo stato ottime condizioni e mezzi per vivere. E in questo egli vide tanto lontano, che ora, a tanti secoli dal divieto,
non serbiamo memoria che una sola
nave mai sia ripartita, mentre soltanto tredici persone, in tempi diversi, preferirono ripartire sui nostri legni. Io non so che cosa quei pochi che
sono tornati abbiano potuto riferire
all’estero. Ma credete pure che qualsiasi cosa abbiano detto non poteva
essere preso dove andarono se non come un sogno. Quanto poi ai nostri viaggi
dal nostro ad altri paesi, il nostro
legislatore pensò bene di proibirli
del tutto. Non è così in Cina. Infatti, i Cinesi vanno per mare dove
vogliono o dove possono; la qual cosa mostra che
la loro legge dell’esclusione dei forestieri è una legge di pusillanimità e di paura. Tuttavia, questo nostro
divieto ha un’unica eccezione che è ammirevole, in quanto mantiene il beneficio che viene dal commercio con i
forestieri, mentre ne evita il danno: e ora ve lo spiegherò. E a questo punto parrà ch’io divaghi un poco, ma più in là
giudicherete la cosa pertinente.
« Dovete sapere,
miei cari amici, che tra le opere eccellenti
di quel sovrano una sopra tutte ha la preminenza. Questa fu la creazione e l’istituzione di un ordine,
o società, che chiamiamo Casa di
Salomone, che noi crediamo sia la fondazione
più nobile che mai sia stata sulla terra e il faro di questo regno. Essa è destinata allo studio delle
opere e delle creature di Dio. Alcuni
pensano che porti il nome del fondatore
un poco alterato, in quanto dovrebbe chiamarsi Casa di Solamona. Ma i documenti lo scrivono come è
pronunciato. Perciò io lo considero
derivato dal re degli Ebrei, che è famoso
presso di voi e per nulla ignoto a noi; infatti noi abbiamo alcune parti delle sue opere che per voi sono
perdute, vale a dire quella Storia
Naturale ch’egli scrisse di tutte le
piante, dal cedro del Libano al muschio che spunta sui muri, e di tutte le cose che hanno vita e
movimento. Questo mi fa pensare che
il nostro re, scoprendo di avere molti
punti in comune con quel re degli Ebrei (che era vissuto molti anni prima di lui), lo onorasse con il
titolo di questa fondazione. E sono
tanto più indotto a essere di questa opinione in quanto scopro negli antichi
documenti che quest’ordine o società è talvolta chiamata Casa di
Salomone, e talvolta Collegio delle Opere
dei Sei Giorni; dal che mi risulta che il nostro eccellente sovrano avesse
appreso dagli Ebrei che Dio aveva
creato il mondo e tutto ciò che vi si trova
nello spazio di sei giorni: e perciò egli, istituendo quella casa per la scoperta della vera natura di
tutte le cose (in modo che Dio potesse
avere tanta più gloria per averle create,
e gli uomini un frutto tanto maggiore nel servirsene), diede a essa anche quel secondo nome.
« Ma veniamo ora all’argomento che ci interessa.
Dopo che il re ebbe proibito a tutto
il suo popolo di navigare verso qualsiasi paese che non fosse sotto la
sua corona, emanò tuttavia quest’ordinanza:
che ogni dodici anni fossero inviate da questo regno due navi, destinate a viaggi
diversi; che in ognuna di queste navi
vi fosse una missione di tre membri o
confratelli della Casa di Salomone, il cui scopo dovesse essere soltanto quello di metterci a conoscenza
degli affari e dello stato di quei
paesi ai quali erano indirizzati; e in particolare
delle scienze, delle arti, delle produzioni e delle invenzioni di tutto il mondo; e altresì perché ci
portassero libri, strumenti e
campioni d’ogni sorta; che le navi, dopo aver fatto sbarcare i confratelli, ritornassero, e che i confratelli rimanessero all’estero fino alla
successiva missione. Queste navi
d’altro non sono cariche se non di vettovaglie e di grande quantità di denaro da lasciare ai confratelli per l’acquisto di quelle cose e per il compenso di
quelle persone ch’essi giudichino
conveniente. Quanto però a dirvi come si impedisce che i semplici marinai siano scoperti in terraferma, e come quelli che devono essere fatti sbarcare per
qualche tempo si celino sotto i nomi
di altre nazioni, e per quali località
questi viaggi siano stati stabiliti, e quali luoghi d’incontro siano
fissati per le nuove missioni, e simili particolari dell’impresa, non posso farlo, né voi desiderate tanto. Ma avete cosi veduto che manteniamo un commercio, non
per oro, argento o gioielli, né per sete o per spezie o per alcun altro bene materiale, ma solo per la prima cosa
creata da Dio, che fu la luce: per
aver luce, dico, sullo sviluppo di tutte
le parti del mondo. »
E quando ebbe detto questo tacque, e cosi noi
tutti; perché veramente eravamo tutti stupiti di aver udito cose cosi straordinarie dette in maniera cosi
convincente. Essendosi poi accorto
che eravamo ansiosi di dire qualcosa, ma che non l’avevamo pronta, con grande cortesia ci tolse d’imbarazzo, e passò a farci domande sul nostro
viaggio e sulle nostre vicende; e
alla fine concluse che avremmo fatto bene a pensare tra noi quanto tempo di
permanenza volessimo richiedere allo
stato, e ci invitò a non fissare dei limiti ristretti perché egli ci avrebbe procurato quanto tempo
avessimo desiderato. Allora noi tutti ci alzammo e facemmo per baciare
il lembo della sua cappa, ma egli non ce lo permise e prese commiato. Ma non
appena fu risaputo fra i nostri uomini che lo
stato soleva offrire possibilità ai forestieri che volessero rimanere, dovemmo faticare abbastanza perché
alcuni di essi badassero alla nave, e
per trattenerli dall’andare immediatamente
dal Governatore a impetrare condizioni; soltanto molto a fatica riuscimmo a raffrenarli sino al momento in cui ci fossimo accordati sulla via da prendere.
Ora ci stimavamo
uomini liberi, vedendo che non v’era alcun pericolo di rovina totale, e
vivevamo assai allegramente, uscendo e vedendo ciò che c’era da vedere nella
città e nei luoghi vicini, entro la nostra
portata, e facendo conoscenza con
molti in città, non di grado troppo inferiore, nel cui modo di trattare scoprimmo tanta umanità e tale
liberalità e tale sollecitudine di
accogliere i forestieri, per cosi dire, nel proprio cuore, da essere
sufficiente a farci dimenticare tutto ciò che
dei nostri paesi ci era caro; e di continuo ci imbattevamo in molte cose
davvero degne di essere osservate e riferite; tanto che veramente se v’è uno
specchio al mondo degno di avvincere
gli sguardi umani, esso è quel paese.
Un giorno, due del
nostro equipaggio furono invitati a una festa della famiglia, come la chiamano;
questa è un’usanza assai naturale, pietosa e
venerabile, che mostra come quella nazione
sia fatta di ogni cosa buona. Ecco come avviene. Si consente a ogni uomo
che viva tanto da vedere trenta persone discese
dal suo corpo, tutte vive e tutte superiori ai tre anni, di fare questa festa, che si celebra a spese dello stato. Il padre della famiglia, che chiamano Tirsan, due
giorni prima della festa chiama a sé
tre amici a sua scelta, ed è anche assistito
dal Governatore della città o del luogo dove la festa è celebrata, e tutti i membri della famiglia, di
entrambi i sessi, sono convocati a
intervenire. Per questi due giorni il Tirsan siede in consultazione intorno al
buon andamento della famiglia. Qui,
se v’è una discordia o una lite fra persone della famiglia, essa è composta e placata. Qui, se
qualcuno della famiglia è in angustie
o in rovina, si dispongono per lui aiuti
e mezzi sufficienti a vivere. Qui, se qualcuno è succubo del vizio o segue cattive strade, è riprovato e
censurato. Si danno anche
suggerimenti circa i matrimoni e l’indirizzo di vita che ciascuno di loro dovrebbe prendere, con diverse altre disposizioni e consigli del genere. Il Governatore
è presente a fine di mettere in
esecuzione, in virtù della sua pubblica autorità, i decreti e gli ordini del Tirsan, se questi dovessero essere
disobbediti, sebbene ciò sia raramente necessario, tanta è la
venerazione e l’obbedienza che riconoscono all’ordine di Natura. Parimente in quell’occasione, il Tirsan
sceglie sempre uno dei suoi figli
perché venga a vivere con lui nella sua casa; e da quel momento questo è chiamato il Figlio della Vigna. Il motivo sarà subito evidente.
Il giorno della festa, il padre o Tirsan entra dopo
il servizio divino in una grande sala dove si celebra la festa; e questa sala ha una pedana rialzata a un’estremità.
Contro la parete, al centro della
pedana, è collocata per lui una sedia e
davanti a questa una tavola ricoperta da un tappeto. Sopra il seggio c’è un baldacchino rotondo od ovale, ed è
di edera; un’edera alquanto più
chiara della nostra, come la foglia del pioppo argentato, ma più lucente; infatti essa rimane verde tutto l’inverno. E il baldacchino è minutamente
lavorato con argento e seta di
diversi colori, che adornano l’edera o si intrecciano con essa; ed è sempre opera di qualcuna delle figlie della famiglia, ed è velato in cima da un
sottile pizzo di seta e d’argento. Ma
l’ossatura è costituita da vera edera, e
di essa, dopo che è smontata, gli amici di famiglia sono desiderosi di avere qualche foglia o ramoscello da
conservare.
Il Tirsan entra con tutti i suoi figli o
discendenti, i maschi davanti a lui e le femmine al suo seguito; e se
c’è una madre dal cui corpo è discesa l’intera stirpe, nella galleria superiore
è posto un paravento, a destra del seggio,
con un ingresso nascosto e una
finestra di vetro cesellato impiombata di oro e di azzurro; là ella siede senza essere veduta. Dopo essere entrato, il
Tirsan si siede sul seggio; e tutti i discendenti si collocano contro la parete, sia alle sue spalle
sia sull’orlo della pedana, in ordine
d’età e senza differenza di sesso, e rimangono
in piedi. Quand’egli si è seduto, nella stanza, sempre piena di gente ma ben disposta e non in
disordine, dopo qualche tempo entra dall’estremità
opposta della sala un Taratan (che
equivale a un araldo) e ai suoi lati due giovani paggi, dei quali uno reca un rotolo di quella loro luminosa pergamena gialla, e l’altro un grappolo d’uva
d’oro, con lungo stelo o gambo.
L’araldo e i giovinetti sono vestiti di mantelli di raso verdemare; ma il mantello dell’araldo è tutto adorno d’oro e ha uno strascico.
Poi l’araldo, con tre riverenze o piuttosto
inchini, avanza sino alla pedana e qui per prima cosa prende in mano il
rotolo. Questo rotolo è un documento del re
che contiene il dono di un’entrata e
molti privilegi, esenzioni e titoli d’onore conferiti al padre della famiglia; ed è sempre indirizzato e rivolto “A tale persona, nostro beneamato amico e
creditore”, che è titolo conveniente
solo a questo caso. Infatti, essi dicono che il re non è debitore di nessuno se non per la propagazione dei sudditi. Il sigillo apposto al documento
regale è l’immagine del re, sbalzata
o plasmata d’oro; e sebbene tali documenti
siano mandati abitualmente, e quasi di diritto, sono tuttavia modificati a discrezione, secondo il numero e la dignità della famiglia. Il documento viene
letto a voce alta dall’araldo; e
mentre viene letto, il padre o Tirsan rimane in piedi, sostenuto da due dei figli da lui scelti. Poi l’araldo sale
sulla pedana e consegna il documento nelle sue mani; e a questo punto v’è un’acclamazione da parte di
tutti quelli che sono presenti, che in
quella lingua equivale a: “Felice è il
popolo di Bensalem”.
Poi l’araldo prende in mano dall’altro giovinetto
il grappolo d’uva, che è d’oro, sia il gambo sia gli acini. Ma gli acini
sono finemente smaltati, e se i maschi della famiglia sono in numero maggiore, gli acini sono smaltati di
porpora, con un piccolo sole in cima;
se lo sono le femmine, essi allora sono
smaltati di giallo verde, con una luna in cima. Gli acini sono tanti quanti sono i discendenti della
famiglia. Anche questo grappolo d’oro
viene consegnato dall’araldo al Tirsan, il quale subito lo affida a quel figlio che aveva prima scelto ad abitare
in casa con lui; il quale, da quel momento in poi, in pubblico lo porta sempre precedendo il padre
come un segno d’onore; ed è per questo
chiamato il Figlio della Vigna.
Dopo la fine di questa cerimonia, il padre o Tirsan si ritira; e
dopo qualche tempo ritorna per il pranzo, durante il quale siede solo sotto il baldacchino come prima; e nessuno dei suoi discendenti siede con lui, quale che sia
il suo grado o la sua dignità, a meno
che non sia della Casa di Salomone.
Egli è servito soltanto dai figli
maschi, che svolgono tutti i servizi
della tavola stando in ginocchio, mentre soltanto le donne stanno in piedi intorno a lui, appoggiate
contro la parete. Di qua dalla pedana, ai lati della stanza vi sono
tavole per gli ospiti invitati, i quali sono
serviti con gran ordine e decoro; e verso la fine del pranzo (che in occasione
dei più grandi festeggiamenti non
dura mai da loro più di un’ora e
mezzo), viene cantato un inno, diverso secondo l’immaginazione di colui
che lo compone (ed essi hanno poesia eccellente),
ma l’argomento è sempre la lode di Adamo, di Noè e di Abramo, di cui i primi
due popolarono il mondo, e l’ultimo fu
il padre dei credenti; e si conclude sempre con un ringraziamento per la natività del nostro Salvatore, nella cui nascita soltanto la nascita di tutti è
benedetta.
Finito il pranzo, il
Tirsan si ritira ancora; e dopo essersi appartato
solitario in un luogo nel quale dice alcune preghiere segrete, torna per la terza volta a dare la benedizione, con tutti i suoi discendenti che gli stanno
intorno come prima. Poi li chiama per
nome a uno a uno, a suo piacimento, sebbene di rado l’ordine d’età sia
invertito. La persona chiamata (la
tavola è stata tolta precedentemente) s’inginocchia davanti al seggio, e il padre pone la mano sul capo di lui
o di lei, e dà la benedizione con
queste parole: « Figlio di Bensalem (o figlia di Bensalem), tuo padre lo dice;
l’uomo per il quale tu hai respiro e
vita pronunzia la parola; la benedizione del sempiterno Padre, del Principe della pace e della Sacra Colomba sia su di te e renda i giorni del tuo
pellegrinaggio buoni e numerosi. »
Dice questo a ognuno di essi; e fatto ciò,
se v’è qualcuno dei suoi figli di merito e di virtù eminente (purché non siano più di due), egli li
chiama ancora e dice, ponendo loro il
braccio sulla spalla mentre essi rimangono
in piedi: « Figli, è bene che siate nati, lodate Dio e perseverate sino alla fine. » E quindi consegna a
ognuno di loro un gioiello fatto a
forma di spiga di frumento, che da
quel momento essi portano sul davanti del turbante o del cappello. Ciò fatto, essi si danno alla musica
e alle danze e ad altri divertimenti,
secondo il loro costume, per il rimanente della giornata. Questo è
l’intero svolgimento della festa.
Ormai erano passati sei o sette giorni, e io ero
divenuto amico intimo di un mercante di quella città, il cui nome era
Joabin. Egli era un Ebreo e un circonciso; essi hanno infatti ancora alcune
famiglie di Ebrei rimasti fra loro, che essi lasciano alla loro religione. E possono farlo tanto meglio in quanto questi hanno un animo assai diverso da
quello degli Ebrei d’altri paesi.
Infatti, mentre questi ultimi odiano il nome di Cristo e nutrono un segreto e innato rancore contro le persone fra le quali vivono, questi, al
contrario, danno al nostro Salvatore
molti nobili attributi, e amano assai la nazione di Bensalem. L’uomo del quale parlo avrebbe ammesso in ogni momento che Cristo era nato da una Vergine
e che Egli era più che uomo; e avrebbe raccontato come Iddio Lo avesse fatto capo dei serafini che custodiscono il
Suo trono; ed essi Lo chiamano anche
Via Lattea, e l’Elia del Messia, e
con molti altri nobili nomi, che sebbene siano inferiori alla Sua divina maestà, sono tuttavia ben diversi dal
linguaggio degli altri Ebrei.
Quanto al paese di
Bensalem, questo uomo non finiva mai di
lodarlo, essendo desideroso, secondo una tradizione esistente fra gli
Ebrei di quel luogo, che si credesse che la popolazione era della generazione di Abramo, discendente da un altro figlio che chiamano Nachoran; e che Mosè con
una cabala segreta avesse istituito
le leggi di Bensalem che ora sono usate; e che quando il Messia fosse venuto e
si fosse assiso sul Suo trono a
Gerusalemme, il re di Bensalem si sarebbe
assiso ai Suoi piedi, mentre gli altri re avrebbero dovuto tenersi a grande distanza. Ma, a parte
queste fantasie giudaiche, quest’uomo
era saggio e colto e assai accorto, e ben
addentro nelle leggi e nei costumi di quella nazione.
Fra le altre cose,
un giorno gli dissi che ero stato molto colpito dal racconto che qualcuno di
loro mi aveva fatto sull’uso di celebrare la
festa della famiglia, perché mi pareva di
non aver mai sentito parlare di una solennità alla quale la Natura presiedesse a tal punto. E poiché la
propagazione delle famiglie dipende
dall’unione nuziale, desideravo sapere da
lui quali leggi e costumi avessero circa il matrimonio, e se erano fedeli al matrimonio, e se erano legati a
una sola moglie. Infatti, dove la discendenza numerosa ha tanta
importanza e così come appariva da loro, è generalmente consentita una pluralità di mogli.
A ciò egli rispose: « Avete ragione di lodare
l’eccellente istituto della festa della famiglia; e per la verità
sappiamo dall’esperienza che le famiglie
che partecipano delle benedizioni di quella festa fioriscono e prosperano
da allora in poi in modo straordinario. Ma
ascoltatemi e vi dirò ciò che so. Dovete sapere che non esiste sotto i cieli una nazione tanto casta quanto questa di Bensalem, né altrettanto immune da
ogni contaminazione o bassezza. Essa è
la vergine del mondo.
« Non ho letto di
simile castità presso alcun popolo. Ed è loro
detto abituale che chiunque sia incontinente non può rispettare sé stesso; e affermano che il rispetto
di sé, dopo la religione, è il freno
più importante di tutti i vizi. »
Detto questo il buon Ebreo tacque un poco; allora
io, assai più desideroso di sentir parlar lui che di parlare io stesso, e stimando purtuttavia conveniente che a questa
pausa nel suo discorso non dovessi starmene completamente silenzioso, dissi soltanto che volevo dirgli, come la vedova
di Sarepta disse a Elia, ch’era venuto a rinnovare la memoria dei nostri
peccati; e che dovevo ammettere che la
rettitudine di Bensalem era maggiore
della rettitudine d’Europa. A queste parole
egli inchinò il capo, e prosegui in questo modo:
« Vi sono anche
molte sagge ed eccellenti leggi riguardanti
il matrimonio. Esse non ammettono la poligamia. È stato stabilito che nessuno si sposi o contragga
matrimonio finché non sia passato un mese dal primo incontro. Il matrimonio senza il consenso dei genitori non è
annullato, ma è multato negli eredi; perché alla prole di tali matrimoni
non è consentito ereditare più di un terzo
dell’eredità dei genitori. »
E mentre stavamo così conversando, venne uno, che
pareva un messaggiero, con un ricco barracano, e parlò con l’Ebreo; questi si volse a me e disse: « Vogliate
scusarmi; ho l’ordine di andare
d’urgenza. » Il mattino seguente tornò da
me; pareva allegro e mi disse: « È giunta notizia al Governatore della città
che uno dei padri della Casa di Salomone sarà qui oggi a otto; non ne abbiamo visto nessuno in questi ultimi dodici anni. Giungerà in grande pompa; ma
il motivo della sua venuta è segreto.
Procurerò a voi e ai vostri compagni
un buon posto per vedere il suo ingresso. » Lo ringraziai e gli dissi che ero lietissimo della
notizia.
Venuto il giorno
egli fece il suo ingresso. Era un uomo di media statura e di media età,
dignitoso nella persona, e con l’espressione
di chi ha compassione degli uomini. Era vestito di una tunica di fine stoffa nera, con ampie maniche e una cappa; sotto aveva indumenti di splendido
lino bianco sino ai piedi, ed era cinto da una cintura della stessa
stoffa, e portava intorno al collo un collare
o stola del medesimo tessuto. Aveva
singolari guanti incastonati di pietre; e scarpe di velluto color pesca.
Aveva il collo nudo sino alle spalle. Il cappello era simile a un elmo o a un
monterò spagnuolo, e sotto di esso i capelli
erano convenientemente arricciati: erano
di colore bruno. Aveva la barba tagliata in tondo e dello stesso colore dei capelli, solo un po’ più
chiara. Veniva portato in una ricca
carrozza senza ruote, a mo’ di lettiga, con due cavalli a ciascuna delle estremità, riccamente bardati di velluto azzurro ricamato; su ciascun
lato erano due valletti vestiti in
maniera simile. La carrozza era tutta di cedro dorato e adorna di cristallo; solo che la parte anteriore aveva pannelli di zaffiri disposti in cornici
d’oro, e la parte posteriore li aveva
di smeraldi del colore di quelli del Perù. C’era anche sulla cima, al centro, un sole d’oro raggiante, e in cima sul davanti un piccolo cherubino d’oro
con le ali spiegate. La carrozza era
coperta di un panno d’oro intessuto
sull’azzurro. Davanti a lui c’erano cinquanta attendenti, tutti giovani, con manto di raso bianco fino a
mezza gamba, calze di seta bianca,
scarpe di velluto azzurro, e cappelli di velluto azzurro con belle piume di colori diversi, poste intorno a guisa
di nastri. Immediatamente davanti alla carrozza venivano due uomini, a capo
scoperto, vestiti di lino fino ai piedi, con cintura e con scarpe di velluto
azzurro, i quali portavano l’uno un
bacolo, l’altro un pastorale simile a un vincastro; nessuno dei due di metallo, ma il bacolo di legno
di balsamo, il pastorale di cedro. Non c’erano cavalieri né davanti né dietro la sua carrozza: per evitare, come sembra,
qualsiasi agitazione e confusione.
Dietro la carrozza venivano tutti gli ufficiali e i dignitari delle
corporazioni della città. Egli sedeva solo,
su cuscini azzurri di finissima felpa; e aveva sotto i piedi rari tappeti di seta di diversi colori,
simili a quelli persiani, ma assai
più belli. Egli teneva alzata la mano nuda mentre procedeva, come a benedire la gente, ma in silenzio. La strada era straordinariamente ben ordinata;
tanto che non vi fu mai esercito che
avesse i propri uomini meglio disposti in
assetto di battaglia di quanto lo fosse quella gente. Similmente le
finestre non erano affollate, ma ognuno vi stava come se vi fosse stato
collocato.
Quando il corteo fu passato, l’Ebreo mi disse: «
Non sarò in grado di tenervi compagnia come vorrei a causa dell’incarico che la città mi ha affidato
d’intrattenere questo grande personaggio. » Tre giorni dopo l’Ebreo tornò da me
e disse: « Siete uomini fortunati;
infatti il padre della Casa di Salomone
prende atto che voi siete in questo luogo e mi ha ordinato di dirvi che
ammetterà tutti voi alla sua presenza, e che avrà un colloquio privato con uno di voi che dovrete scegliere; e ha già stabilito che questo avvenga
dopodomani. E poiché intende darvi la sua benedizione, l’ha fissata per la mattinata. »
Venuti il giorno e l’ora, fui scelto dai miei
compagni per l’udienza privata. Lo trovammo in una bella camera, riccamente addobbata e ricoperta di tappeti, senza
gradini per giungere al baldacchino. Egli era seduto su un tronetto
riccamente adorno e sotto un ricco drappo da
baldacchino di raso azzurro ricamato. Era solo, se si eccettuano due
paggi d’onore, uno a ogni lato, finemente
paludati di bianco. Di sotto, le sue vesti erano simili a quelle che gli
avevamo visto indossare sulla carrozza; ma al posto della toga portava un
mantello con cappa, del medesimo splendido
colore nero, assicurata con cinture.
Nel momento stesso in cui entrammo, facemmo un inchino profondo come ci era stato insegnato; e quando ci fummo
avvicinati al suo seggio egli si alzò porgendo la mano priva di guanto e in atto di benedizione; e noi tutti ci chinammo e baciammo il lembo del suo mantello. Ciò
fatto, gli altri se ne andarono e io
rimasi. Allora egli ordinò ai paggi di uscire dalla stanza e mi fece sedere
accanto a lui, e così mi parlò in lingua spagnuola:
« Dio ti benedica, figliuolo; ti darò il più
grande gioiello che possiedo. Poiché ti comunicherò, per amore di Dio e
degli uomini, un rapporto dello stato reale
della Casa di Salomone. Figliuolo, per farti conoscere lo stato reale della
Casa di Salomone seguirò quest’ordine:
in primo luogo ti esporrò il fine della nostra fondazione; in secondo luogo i
mezzi e gli strumenti che abbiamo per
operare; in terzo luogo i diversi impieghi
e le diverse funzioni alle quali sono destinati i nostri associati; e in
quarto luogo le cerimonie e i riti che osserviamo.
« II fine della nostra fondazione è la
conoscenza delle cause e dei segreti moti delle cose, e l’ampliamento dei
confini dell’impero umano per l’effettuazione
di tutte le cose possibili.
« I mezzi e gli strumenti sono questi.
Abbiamo ampi e profondi pozzi di varia
profondità: i più profondi si spingono
fino a 3600 piedi, e alcuni di essi sono scavati e costruiti sotto grandi colline e montagne; cosicché, se si
calcola insieme la profondità della
collina e la profondità del pozzo, alcuni
di essi sono profondi più di tre miglia; ci risulta infatti che la profondità di una collina e la
profondità di un pozzo, rispetto alla
pianura, sono la stessa cosa; entrambi sono
ugualmente lontani dai raggi del sole e del cielo e dall’aria aperta. Questi pozzi noi li chiamiamo la
regione inferiore, e ce ne serviamo
per ogni sorta di coagulazioni, di solidificazioni,
di refrigerazioni e di conservazioni dei corpi. Li usiamo anche come imitazioni delle miniere naturali e per la produzione di nuovi metalli artificiali per
mezzo di composti e di sostanze che
usiamo e che collochiamo colà per
molti anni. Ce ne serviamo anche talvolta (il che può sembrare strano) per la cura di certe malattie e
per prolungare la vita di alcuni
eremiti che preferiscono vivere laggiù, ben provvisti di tutte le cose necessarie, e che per la verità vivono molto a lungo; da essi poi impariamo molte
cose.
« Abbiamo depositi
sotterranei in terreni vari, nei quali poniamo
cementi diversi come fanno i Cinesi per la loro porcellana. Ma noi ne
abbiamo una varietà maggiore, e alcune specie
sono più belle. Abbiamo anche una grande varietà di concimi e di fertilizzanti per rendere la terra più
fruttifera.
« Abbiamo alte
torri, le più alte di circa mezzo miglio d’altezza,
e alcune anche poste in cima ad alte montagne, cosicché l’altezza della collina con la torre è, in quelle più elevate,
di almeno tre miglia. E questi luoghi noi chiamiamo la regione alta, considerando lo spazio tra i
luoghi alti e quelli bassi come una regione media. Ci serviamo di queste
torri, secondo la loro diversa altezza e
posizione, per l’isolamento, la refrigerazione, la conservazione, e per
l’osservazione di diverse meteore, come
venti, pioggia, neve, grandine, e anche di alcune meteore di fuoco. E in certi di questi luoghi vi sono abitazioni per eremiti, che ogni tanto
visitiamo e ai quali indichiamo che
cosa osservare.
« Abbiamo grandi
laghi, sia salati sia dolci, dei quali ci serviamo
per i pesci e per gli uccelli. Ce ne serviamo anche per immergervi certi
corpi naturali, perché notiamo una differenza
fra le cose seppellite nella terra, o nello spazio sotto terra, e le cose immerse nell’acqua. Abbiamo anche
bacini di cui alcuni estraggono
l’acqua dolce da quella salata, e altri
trasformano artificialmente l’acqua dolce in salata. Abbiamo anche certi scogli nel mezzo del mare e
insenature sulla spiaggia adattati per
certi lavori per i quali sono indispensabili l’aria e il vapore del
mare. Abbiamo parimente impetuose correnti e
cateratte che ci servono per molti movimenti;
e ancora macchine per moltiplicare e rafforzare i venti e anche per avviare movimenti diversi.
« Abbiamo anche un
gran numero di pozzi e di fontane artificiali,
costruite a imitazione delle sorgenti e dei bagni naturali, impregnate
di vetriolo, solfo, acciaio, rame, piombo, nitro
e altri minerali; e ancora abbiamo piccoli bacini per l’infusione di molte cose, nei quali le acque
acquistano una virtù più in fretta e
meglio che in recipienti o in vasche. E
fra le altre abbiamo un’acqua, che chiamiamo Acqua del Paradiso, la quale, cosi come la lavoriamo, è assai
efficace per la salute e per il
prolungamento della vita.
« Abbiamo altresì
grandi edifici spaziosi nei quali imitiamo ed
esperimentiamo le meteore, come la neve, la grandine, la pioggia, piogge artificiali di corpi che non
siano l’acqua, tuoni, lampi; e generazione di corpi nell’aria, come
rospi, mosche e diversi altri.
« Abbiamo anche certe camere, che chiamiamo camere della
salute, nelle quali modifichiamo l’aria secondo che giudichiamo giusto e conveniente alla cura di diverse malattie e alla conservazione della salute.
« Abbiamo anche bei
bagni spaziosi di varie misture per la cura
delle malattie e per ristabilire il corpo umano dalla rarefazione; e altri per consolidarlo nella forza
dei nervi, delle parti vitali e
dell’umore e sostanza stessi del corpo.
« Abbiamo anche
vasti e diversi frutteti e orti, nei quali non
badiamo tanto alla bellezza quanto alla varietà del terreno e del concime, adatto alle diverse piante ed
erbe, e alcuni assai spaziosi, nei
quali sono piantati alberi e bacche dai
quali ricaviamo varie specie di bevande, oltre che dalle vigne. In essi pratichiamo anche ogni genere di
innesto e di inoculazione, tanto di
alberi selvatici quanto di alberi da frutto,
e questo dà molti risultati. E artificialmente facciamo in modo che, in questi stessi frutteti e orti, gli
alberi e i fiori vengano prima o dopo
rispetto alla loro stagione, e che crescano
e diano frutto più speditamente di quanto non facciano secondo il loro processo naturale. Artificialmente li rendiamo anche più grandi di quanto non siano in
natura, e i loro frutti più grossi e più gustosi, e di sapore, di odore,
di colore e di forma diversi dalla loro
natura. E molti d’essi li modifichiamo
in modo tale che diventano di uso medicinale.
« Abbiamo anche
mezzi per far crescere diverse piante mescolando terreni diversi senza semi, e
parimente di produrre diverse piante nuove,
differenti da quelle comuni, e di trasformare
un albero o una pianta in un’altra.
« Abbiamo ancora
parchi e recinti con ogni sorta di animali e
di uccelli, dei quali non ci serviamo soltanto per mostra di rarità, ma anche per dissezioni ed esperimenti,
e con ciò siamo in grado di trarre
lumi su ciò che si può operare sul corpo
dell’uomo. E in questo riscontriamo molti singolari fenomeni: per esempio la continuazione della vita
in quegli animali, anche se diverse parti che voi considerate vitali sono morte
e asportate; la risuscitazione di altri che in apparenza sembrano morti, e
simili. Sperimentiamo anche su di essi ogni sorta di veleni e di farmaci, sia
nella chirurgia sia nella medicina.
Ancora li rendiamo artificialmente più grandi o più alti della loro specie, o per contro li rimpiccioliamo e
arrestiamo la loro crescita; li
rendiamo più fecondi e produttivi di quanto non lo sia la loro specie, e per contro sterili e improduttivi. Li facciamo anche mutare colore, forma e attività
in molti modi. Abbiamo trovato il modo
di fare incroci e accoppiamenti fra
specie diverse, e queste hanno prodotto molte nuove specie, e non sterili come
generalmente si pensa. Produciamo un
gran numero di specie di serpenti, di vermi, di mosche, di pesci, per mezzo della putrefazione, delle quali
poi alcune sono fatte progredire fino
a essere creature perfette, come animali
o uccelli, e hanno sesso e si moltiplicano. E non facciamo questo a caso, ma sappiamo in precedenza da
quale materia e composizione
usciranno questa o quella specie di
creature.
« Abbiamo anche
piscine speciali nelle quali facciamo esperimenti
sui pesci, come abbiamo detto prima per gli animali e per gli uccelli.
« Abbiamo anche
luoghi per l’allevamento e per la generazione di quelle specie di vermi e di
insetti che sono di particolare utilità, come
sono da voi i bachi da seta e le api.
« Non vi tratterrò a
lungo per raccontarvi delle nostre case di
fermentazione, case di cottura, e delle cucine, nelle quali vengono fabbricate diverse bevande, pani e
cibi rari e con risultati
eccezionali. Abbiamo vini d’uva, e bevande d’altri succhi, di “frutti,
di cereali, di radici, o ottenute da mescolanze con miele, zucchero e manna e frutti secchi e decotti, o anche da
incisioni o ferite degli alberi e dalla polpa delle canne. E queste bevande sono di età diverse, alcune fino
all’età o stagionatura di
quarant’anni. Abbiamo ancora bevande fermentate con diverse erbe, radici e spezie; persino con varie carni rosse e bianche; e alcune delle bevande sono
tali da essere in effetto insieme cibo
e bevanda, tanto che parecchi, specialmente in età, desiderano vivere soltanto
con esse con poca o punta carne o
pane. E soprattutto cerchiamo di produrre bevande di elementi
estremamente tenui da introdurre nel corpo,
senza che causino corrosione, fitte o irritazione; cosi che alcune di esse, poste sul dorso della
mano, dopo qualche tempo passano sino
al palmo, e danno anche un buon sapore
in bocca. Abbiamo ancora acque che disacerbiamo in modo tale da renderle nutrienti, sicché sono veramente bevande eccellenti, e molti non ne usano altre.
Abbiamo pane di diversi cereali,
radici e mandorle, e persino di carne e di pesce seccati, con diversi tipi di lieviti e di condimenti; in modo che vi sono specie che stuzzicano assai
l’appetito, altre che nutrono tanto
che parecchi longevi vivono di quello senza alcun altro nutrimento. Cosi, riguardo alle carni, ne abbiamo di cosi battute, rese cosi tenere e frolle, senza
però alcuna putrefazione, che il
calore per quanto debole di uno stomaco le trasforma in buon chilo, come il calore forte farebbe per la carne
preparata in altro modo. Abbiamo altresì certe carni e pani e bevande che, una volta presi, danno la possibilità di digiunare a lungo; e alcuni altri che, usati,
rendono la carne dei corpi umani
notevolmente più solida e robusta, e la
loro forza di gran lunga maggiore di quanto non sarebbe altrimenti.
« Abbiamo dispensari
o botteghe di medicina nelle quali, come
potete facilmente immaginare, se abbiamo una tale varietà di piante e di creature viventi, più di
quante ne abbiate voi in Europa (noi
sappiamo infatti quante ne avete), i semplici, i farmaci e gli ingredienti medicinali devono anche essere in altrettanta varietà maggiore. Ne abbiamo
parimente di età diverse e di lunga
fermentazione. Quanto alla loro preparazione, non soltanto disponiamo di
ogni forma di accurate distillazioni e di estrazioni, e specialmente per mezzo
di temperature miti, e depurazioni attraverso
filtri diversi e persino sostanze, ma
anche forme esatte di composizione, per le quali si associano
quasi fossero semplici naturali.
« Abbiamo anche
diverse arti meccaniche che voi non avete; e
i prodotti che con esse fabbrichiamo, come carte, stoffe, sete, tessuti, delicati lavori di piume di
sfarzo meraviglioso, ottime tinte e
molte altre cose; e altresì botteghe, sia
per quei prodotti che da noi non sono entrati nell’uso comune, sia per quelli che lo sono. Dovete infatti
sapere che, delle cose dianzi descritte, molte d’esse vengono largamente usate
in tutto il regno, ma se sono scaturite dalla nostra invenzione, ne conserviamo anche per modelli e per
lo studio dei principi.
« Abbiamo anche una
grande varietà di forni che mantengono
temperature assai diverse: alte e rapide, forti e costanti, moderate e miti, insufflate, ferme, secche, umide
e simili. Ma soprattutto abbiamo
temperature a imitazione di quelle del
sole e dei corpi celesti le quali, evitando vari inconvenienti, come le orbite, le rivoluzioni e i ritorni,
ci consentono ammirevoli risultati.
Abbiamo inoltre il calore del letame e degli
intestini e degli stomachi delle creature viventi, e quello del loro sangue e del loro corpo, e dei fieni e
delle erbe ammassati ancora umidi, della calce viva e simili. Ancora, strumenti che generano calore per mezzo del solo
moto. E inoltre luoghi per forti
isolamenti; e ancora luoghi sotto terra che, naturalmente o
artificialmente, producono calore. Ci serviamo
di questi diversi tipi di calore secondo che lo richieda la natura dell’operazione che conduciamo.
« Abbiamo anche case
di ottica, nelle quali riproduciamo ogni
sorta di luci e di radiazioni, e ogni sorta di colori; e con oggetti privi di colore e trasparenti possiamo
rappresentarvi tutti i diversi colori,
non a iride (come nelle gemme e nei prismi), ma singolarmente. Otteniamo
ancora ogni forma di moltiplicazione della
luce, che portiamo a un punto tale e
a una tale acutezza, da distinguere piccoli punti e linee. Ancora tutte le sfumature della luce; tutte le
illusioni e gli inganni della vista,
sia nella forma, sia nella grandezza, sia nei movimenti, sia nei colori;
qualsiasi riproduzione di ombre. Abbiamo
anche trovato vari modi, ancora a voi sconosciuti, di produrre la luce direttamente da corpi diversi.
Ci siamo provveduti dei mezzi per
vedere oggetti lontani, come quelli in cielo o in luoghi remoti; e
otteniamo che gli oggetti vicini sembrino lontani, e gli oggetti lontani
vicini, creando distanze apparenti. Abbiamo
ancora ausili per la vista, assai superiori agli occhiali e alle lenti in uso. Possediamo ancora lenti e altri mezzi per osservare perfettamente e
distintamente corpi piccoli e minuti,
per esempio le forme e i colori di piccoli insetti e vermi, la grana e le incrinature delle gemme che non possono essere vedute altrimenti, esami del sangue
e dell’urina che non possono essere
fatti diversamente. Riproduciamo intorno alla luce iridi, aloni, cerchi
artificiali. Riproduciamo altresì ogni sorta di riflessioni, di rifrazioni e di
moltiplicazione dei raggi visivi degli
oggetti.
« Abbiamo anche
pietre preziose d’ogni genere, molte di esse
di grande bellezza e ignote a voi; e cristalli, e vetri di varie specie;
e fra questi alcuni di metalli vetrificati e altri materiali, diversi da quelli
con i quali voi fabbricate il vetro. Ancora una grande quantità di fossili e di
minerali imperfetti, che voi non avete. Inoltre magneti di forza prodigiosa e
altre pietre rare, naturali o artificiali.
« Abbiamo ancora
case del suono nelle quali esperimentiamo e
riproduciamo tutti i suoni con la loro origine. Possediamo accordi che voi non avete, di quarti di
tono e di passaggi di suono ancora più lievi. Anche diversi strumenti musicali, a voi ignoti, alcuni più soavi di tutti
quelli che avete voi; e insieme
campane e campanelli di suono delicato e
dolce. Produciamo tanto i suoni piccoli quanto quelli grandi e profondi; e quelli grandi sia bassi sia acuti;
produciamo vari tremoli e trilli di
suoni che originalmente sono interi. Riproduciamo
e imitiamo tutti i suoni e le lettere articolati e le voci e le note
degli animali e degli uccelli. Abbiamo certi congegni
i quali, se applicati all’orecchio, favoriscono assai l’udito. Abbiamo ancora
vari strani echi artificiali, che riflettono la voce molte volte, quasi
rigettandola; e alcuni che restituiscono la
voce più forte di quanto non sia andata, alcuni più acuta e altri più profonda; e persino alcuni che restituiscono la voce diversa nelle lettere o nel
suono articolato da quella che ricevono. Abbiamo anche la maniera di incanalare i suoni in cilindri e tubi, in
direzioni e distanze singolari.
« Abbiamo anche case
di profumi, alle quali connettiamo anche esperimenti sul gusto. Moltiplichiamo
gli odori, e questo può sembrare strano:
imitiamo gli odori, facendoli emanare tutti
da preparati diversi da quelli che li emettono. Otteniamo anche diverse imitazioni di sapori, che
ingannano il gusto di chicchessia. È
anche annessa in questa casa una fabbrica
di conserve, nella quale produciamo ogni sorta di canditi, secchi e
umidi, e diverse specie gustose di vini, di latte, di brodi e di legumi in varietà maggiore della vostra.
« Abbiamo ancora
fabbriche di macchine, nelle quali vengono costruite macchine e strumenti
adatti a qualsiasi genere di movimento. Ivi
conduciamo esperienze per imitare movimenti
più veloci di quanto non possiate fare voi sia con i vostri moschetti
sia con qualsiasi altra macchina che possedete;
e ottenerli e moltiplicarli più facilmente e con poca energia, con ingranaggi e altri mezzi, e renderli
più forti e più violenti di quanto non
siano i vostri, superando i vostri più
grandi cannoni e basilischi. Fabbrichiamo anche materiale bellico e strumenti di guerra e macchine
d’ogni sorta; e anche nuove miscele e
combinazioni di polvere da sparo, fuoco
greco che arde nell’acqua ed è inestinguibile, e ancora fuochi d’artificio di ogni varietà, sia per
divertimento, sia per utilità.
Imitiamo ancora il volo degli uccelli, e abbiamo qualche possibilità di volare
nell’aria. Abbiamo navi e imbarcazioni
per andare sott’acqua e per sfruttare i mari, e ancora cinture e sostegni per nuotare. Abbiamo diversi orologi
singolari, e altri simili meccanismi di reazione, e anche moti perpetui. Riproduciamo anche i movimenti delle
creature vive con modelli di uomini,
animali, uccelli, pesci e serpenti;
abbiamo ancora un grande numero di altri vari movimenti, singolari per regolarità, precisione
e minuzia.
« Abbiamo anche una
casa per la matematica, nella quale vengono costruiti con estrema accuratezza
tutti gli strumenti per la geometria e
l’astronomia.
« Abbiamo anche case dell’illusione dei sensi,
nelle quali otteniamo ogni sorta di
fenomeni di prestigio, di false apparizioni, d’inganni, d’illusioni e dei loro
errori. E vi riuscirà certamente facile credere che noi, che possediamo
tante cose realmente naturali che suscitano
l’ammirazione, possiamo in un mondo di particolari ingannare i sensi, volendo
mascherare quelle cose e facendo in
modo che sembrino più miracolose. Ma
avversiamo tutte le imposture e le menzogne, tanto che abbiamo severamente proibito a tutti i nostri soci, sotto la pena di disonore e di multe, di mostrare
un’opera o un oggetto naturale con
ornamento o con amplificazione, ma
soltanto puro cosi com’è e senza nessuna affettazione di straordinarietà.
« Queste sono,
figliuolo, le ricchezze della Casa di Salomone.
« Quanto alle
diverse funzioni e uffici dei nostri soci, ne abbiamo dodici che si recano in
paesi stranieri sotto il nome di altre
nazioni (il nostro lo teniamo infatti segreto), i quali ci portano i libri e gli estratti e gli esempi di
esperimenti compiuti da ogni parte.
Noi li chiamiamo Mercanti della Luce.
« Ne abbiamo tre che
raccolgono gli esperimenti che si trovano in
tutti i libri. Questi li chiamiamo Predatori.
« Ne abbiamo tre che
raccolgono gli esperimenti di tutte le arti
meccaniche, e anche delle scienze liberali, e anche di quelle pratiche che non sono portate al grado di
arti. Chiamiamo questi Uomini del
Mistero.
« Ne abbiamo tre che
tentano quei nuovi esperimenti che a loro
sembrano utili. Questi li chiamiamo Pionieri o Minatori.
« Ne abbiamo tre che
riducono gli esperimenti dei precedenti
quattro gruppi in simboli e tavole, sì da offrire lo strumento migliore per la derivazione da essi di
osservazioni e di assiomi. Chiamiamo
questi Compilatori.
« Ne abbiamo tre
che, studiando gli esperimenti dei loro colleghi,
si adoprano e si danno da fare per trarre da essi cose utili e pratiche per la vita e per la
conoscenza umana, sia per quanto riguarda le opere sia per quanto
riguarda una semplice dimostrazione delle
cause, i mezzi della divinazione naturale
e la scoperta facile e chiara delle proprietà e delle parti dei corpi. Chiamiamo questi Uomini di Talento
o Benefattori.
« Poi, dopo diversi
incontri e consulti di noi tutti, per considerare
le elaborazioni e le sintesi precedenti, ne abbiamo tre che in esito a queste
si adoperano per predisporre nuovi esperimenti
di più alto valore che penetrano nella Natura più a fondo dei primi. Questi li chiamiamo Lampade.
« Ne abbiamo altri
tre che eseguono gli esperimenti così predisposti
e ne riferiscono. Questi li chiamiamo Inoculatori.
« Infine ne abbiamo
tre che elevano le precedenti scoperte sperimentali a osservazioni, assiomi e
aforismi più alti. Questi li chiamiamo
Interpreti della Natura.
« Abbiamo altresì,
come penserete, novizi e apprendisti, affinchè non manchi la successione ai
precedenti sperimentatori, oltre a un gran
numero di aiuti e di assistenti, uomini e donne. E facciamo anche questo: teniamo consultazioni su quali delle
scoperte e degli esperimenti fatti debbano essere pubblicati, e quali no; e prestiamo
tutti giuramento di segretezza per
celare quelli che crediamo giusto tenere segreti, anche se alcuni di questi li riveliamo talvolta
allo stato e altri no.
« Quanto poi alle
celebrazioni e ai riti, abbiamo due lunghissime
e belle gallerie: in una di queste mettiamo modelli e campioni di tutti i tipi di invenzioni più rare ed eccelse; nell’altra
collochiamo le statue di tutti i principali scopritori. Là abbiamo la statua del vostro Colombo, che scoprì le Indie Occidentali; dell’inventore delle navi; il vostro
monaco che fu l’inventore
dell’artiglieria e della polvere da sparo; dell’inventore della musica;
dell’inventore dell’alfabeto; dell’inventore
della stampa; dell’inventore delle osservazioni astronomiche; dell’inventore
della lavorazione dei metalli; dell’inventore
del vetro; dell’inventore della seta di filugello; dell’inventore del vino; dell’inventore del grano
e del pane; dell’inventore dello
zucchero; e tutti questi per tradizione più sicura della vostra. Abbiamo
poi nostri vari inventori di opere
eccellenti che, dal momento che voi non le avete viste, sarebbe troppo
lungo descrivere; e per di più potreste facilmente
sbagliare a dare la giusta interpretazione delle descrizioni d’esse. E per ogni invenzione di valore
erigiamo una statua all’inventore e gli diamo una ricompensa generosa e onorevole. Queste statue sono alcune di bronzo,
alcune di marmo e di basalto, alcune
di cedro e di altri legni pregiati, indorati
e abbelliti; alcune di ferro, alcune d’argento, alcune d’oro.
« Abbiamo inni e
funzioni quotidiane di lode e di ringraziamento
a Dio per le Sue meravigliose opere. E formule di preghiera con le quali
imploriamo il Suo aiuto e la Sua benedizione
affinchè ci illumini nelle nostre fatiche, e le faccia volgere a buono e santo uso.
« Infine facciamo
giri o visite delle varie città principali del
regno, ove, secondo l’opportunità, rendiamo pubbliche le nuove invenzioni utili
che giudichiamo giusto divulgate. Comunichiamo anche le previsioni naturali di
malattie, di epidemie, d’invasioni di
stormi di creature nocive, di carestia, di tempeste, di terremoti, di grandi
inondazioni, di comete, del clima dell’anno e diverse altre cose; e al
riguardo diamo consiglio su ciò che si deve fare per la prevenzione o il
rimedio. »
Detto questo, egli si alzò; e io, come mi avevano
insegnato, m’inginocchiai; ed egli posò la mano destra sul mio capo e disse: « Dio ti benedica, figliuolo, e Dio
benedica le parole che ho detto. Ti
do libertà di pubblicarle per il bene di
altre nazioni; perché qui noi siamo, in seno a Dio, una terra
sconosciuta. » Indi mi lasciò, dopo aver assegnato come dono a me e ai miei
compagni un valore di circa duemila ducati.
Essi infatti largiscono generosi donativi ogni volta che se ne presenta l’occasione.
IL RIMANENTE NON FU COMPIUTO